martedì 11 gennaio 2011

RACCONTI 6

CE LO POTEVI DIRE

Ce lo potevi dire che a quell’appuntamento ti sarebbe dispiaciuto mancare. Che la tua donna avresti preferito non perderla. Che tutti quei soldi per venirne fuori pulito non li avevi. Che eri stanco, dopo sei ore passate in quell’Ufficio della Questura.  Che quella parola sul verbale non ti convinceva. Ce lo potevi dire che la torta del tuo compleanno avresti gradito assaggiarla e quell’esame era importante. Ce lo potevi dire che quei due annetti di galera li avresti presi cosi’ male. Ce lo potevi dire. Che eri innocente.

HAI PENSATO AGLI INSEPARABILI ?

E’ un casino. Sudati e trafelati, ma ce l’abbiamo fatta. Valigie e trolley, sacchetti e buste, macchina da ripresa, marsupi. Le chiavi di ….dove cazzo sono ? E’ stata una corsa, sono state ore concitate. Non abbiamo quasi parlato, non ce n’era il tempo. Ma li’ dentro, fa quasi freddo. Li’, adesso, c’e’ il tempo di prendersi un caffe’, mentre commenti il colpo di culo. In orario. Sei ore e ci saremo. La spiaggia e l’isola. Si stacca, ci si ritrova, si fa la collezione di conchiglie del C., si cena sul mare, le palme, il cazzeggio, i cocktail, il gelato e il cocco.
Ti sei fatta seria. A cosa stai pensando ? Perplessita’ dell’ultimo secondo ?. Dobbiamo quasi presentarci al finger. E poi…”Agli inseparabili hai pensato tu ?” Rivedo la gabbia, ma non ricordo quando. Sono quasi sicuro di no. “Non e’ che li hai messi dentro  tu e non te lo ricordi ?” Rivedo la gabbia, esposta al sole, ma questa volta il tempo e’il futuro e il destino e’ scritto. L’acqua che finisce. Il calore che si concentra. Il mangime c’e’, ma e’inutile. Due riproduzioni in stoffa e penne artificiali, rinsecchite. Prima uno, poi l’altro. Il sole, il sole. La plastica surriscaldata, il  cibo sbriciolato e rinsecchito”. “Agli inseparabili hai pensato tu ?”

PENSAVO DI CONOSCERTI

Pensavo di sapere che eri un vigliacco. Che ti saresti presto arreso alla vita. Che eri svogliato, votato all’ozio e alle cazzate. Che eri un finto sportivo. Un tipo da sofa’. Immaginavo che  fossi irremovibile nelle due o tre convinzioni che reputi assunti vitali. Che ti piacessero gli spettacoli stupidi, che fossi un tipo da platea popolana e scurrile e ti lasciassi cullare dal suono di frasi malevoli e svogliate. Presumevo amassi l’indifferenza, anzi che non riuscissi proprio a spiegarti  altri atteggiamenti. Pensavo fossi un profittatore, ipocrita, irriconoscente, dedito al vizio, ma senza complicazioni e fatica, servitoti a domicilio. Pensavo di sapere come eri fatto. Pensavo di conoscerti.





LAS VEGAS

E’ il nome di quel bar vicino al centro. Ci sono entrato durante uno di quei brevi vagabondaggi nelle pause d’ufficio. ,Erano una moltitudine,ma non davano subito nell’occhio, forse perche’ il bar e’ ampio, o forse per la loro discreta, peggio, silente, e triste immobilita’. Ogni tanto una breve frase, in un dialetto strascicato e contaminato dalla lingua ufficiale. Molti seduti, ma senza il caffe’ o il cappuccino. Nessun aperitivo sui tavoli. I corpi curvi, il capo inclinato, come nell’attendere alla manutenzione di una mitragliatrice. Ma invece grattavano. Mi presento al bancone mentre una voce moderatamente grave risuona nell’aria. All’indirizzo di nessuno, Ma la proprietaria se ne appropria e inarca le sopracciglia, in  modo manieristico e preordinato. “Ti devo ringraziare” Dice quello. “Per cosa ?” fa’ lei “Mi hai dato il biglietto buono”. “Ah, si’, e quanto ?””Mille”-
Per un attimo l’attenzione dei presenti e’ concentrata sull’evento. La cameriera, slava o giu’ di li’, si fissa in un profilo vagamente egizio, prima di udire la mia voce che le comunica l’ordine. Poi le teste tornano giu’. Le dita si riafforcano a ragno sui cartoncini, quelle di una mano. E le altre grattano.

LA BANDIERA SVENTOLA E LA PERA CADE

Non e’ lo scemo del villaggio. E non e’ nemmeno un cretino. Anzi, a sentire il tipo del bar/osteria/ristorante del paese, sa un sacco di cose ed e’ grado di soddisfare piu’ di una curiosita’, non solo sulle tradizioni locali, come potresti aspettarti. Ma in molti campi. Solo e’ silenzioso. Non scostante, solo timido forse, o eccessivamente contenuto nelle sue espressioni, ma all’occorrenza abile a sciorinare date ed eventi storici, e cosa e come ha fatto quello e quell’altro e, inopinatamente, dati scientifici dei quali si intuisce il convinto apprendimento, non la semplice memorizzazione. E’ anche un manuale di attivita’ pratiche, se ben sollecitato. Insomma non un pappagallo parlante. Ha questo vezzo, e dovrebbe essere l’ultimo elemento ad incuriosirmi, invece, a furia di sentirlo ripetere, mi stuzzica l’interesse. “La bandiera sventola e la pera cade”, commenta dieci volte al giorno Lo intercala, talvolta. o lo butta li’ al termine di un chiarimento, mentre i paesani sorridono. Ma non ti spiega, nemmeno se glielo chiedi. Mi invita invece a seguirlo, dopo mesi e mesi di frequentazione del locale –di alcuni sono diventato amico, ma non si puo’ lo stesso  dire per quanto lo riguarda- e di bevute in comune, accertandosi prima che abbia le scarpe giuste, e prende la via della collina. Poi piu’ su, lungo uno stretto sentiero praticato forse da qualche solitario contadino o da volpi vagabonde, fino ad arrivare ad una strettoia e, poco oltre, ad uno spiazzo. E li’, a lato di una malinconica struttura in muratura, austera e silenziosa, evidentemente dismessa da anni, una caserma o un vecchio forte, lo vedo, il pennone. Li’ la vedo la bandiera, o quel che ne rimane. A destra della quale, non compreso in alcun appezzamento, uno striminzito albero di pere. Mi guarda un attimo prima di parlare, sopra lo sfondo di un cielo totalmente azzurro. “A volte qui, a saper aspettare” dice lui “La bandiera sventola e la pera cade”.  

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