sabato 15 gennaio 2011

RACCONTI DODICI (CREDO)

IL FUTURO

Avanziamo lentamente, premuti contro la paratia in plexiglass, compressi nella calca, sudati e nervosi prima di scorgere, oltre l’ennesima cortina di corpi, le indicazioni che cercavamo. Intorno una teoria di modellini, plastici, tour virtuali e hostess piu’ o meno vestite, a corredo dei vari ambienti.. Evitiamo un successivo mare di depliants, esposizioni pubblicitarie, progetti piu’ o meno avveniristici. Rasentiamo i punti di ristoro. Giulia e li’ seduta con una bibita in mano.Ha camminato a lungo dietro di noi prima di capitolare. Anche se l’idea  l’ha lanciata lei, E ancora oggi sembrava entusiasta di venirci. La Fiera del Secolo….. Diceva che trovarsi nella capitale e non approfittarne, andarsene senza nemmeno una visita sarebbe stato un crimine. A casa avremmo dovuto darne contezza. “Li,’ a un chilometro di distanza e non ci siete stati ?” Che peccato. Proprio scemi”  Invece eccoci li’, scocciati e trepidanti al tempo stesso. Robot ? Auto volanti ? Televisori morbidi ? Nossignore. Si punta al pezzo forte, Saverio ed io. Nessun diversivo, niente aperitivi, su questo siamo d’accordo, vogliamo vedere la cosa unica e raccontarla. Di certo e’ un  calvario. Ancora gente, ancora folla. Ci si fa strada lentamente badando di non calpestare qualche bambino, contando il numero delle  gomitate inferte e ricevute. E si procede in modo costante, anche se buffo, nella selva di braccia e di teste che si insinuano ovunque. E di voci, scorrettezze ed espressioni di ogni tipo che costellano il tragitto. Che e’ breve, una volta tanto. Ci arrestiamo all’inizio del corridoio dove si compone una   fila approssimativa. Niente biglietti, stavolta, o numerini, nessuna precedenza. Un plotone sufficientemente inquadrato di gente disposta ad attendere. Piu’’ o meno paziente.  Ci mettiamo in coda pure noi, affascinati da quella inaspettata quanto improvvisa disponibilita’ di spazio. Un paio di tipi della sicurezza, le braccia incrociate, lo sguardo benevolo, regolano l’ingresso al padiglione. Un cordone color cremisi, due sostegni dorati, un sipario in velluto gli unici arredi. “Due persone per volta” viene ripetuto.  Niente cellulari accesi, accendini rigorosamente in tasca, si precisa. Prendiamo confidenza con i visi che ci circondano, le nuche di quelli che ci precedono. Un bambino si volta e comincia a piangere tirando fuori un suono sgradevolmente acuto prima che la madre si avvii determinata tenendolo per mano. Pochi passi ed e’ gia’ oltre la tenda. La coppia dietro di noi si stringe. Bisbigli. Risatine complici.
Non parliamo, Saverio ed io. Facciamo trascorrere quei dieci minuti scrutando intorno, alla ricerca di un appiglio per i nostri occhi. Un manifesto, un riquadro  qualunque, un elenco di raccomandazioni. Niente di niente. Cerco di  decifrare la scritta sulla targhetta di riconoscimento dell’inserviente che ci passa accanto,ma  il tipo in uniforme fa un cenno ed e’ gia’ il nostro turno. Un lato del cordone si affranca dal paletto. La tenda si apre su un corridoio buio lungo il quale procediamo lentamente. Fino a scorgere una pallida luce nella una strozzatura del corridio. Quando ci arriviamo non risulta facile individuare le indicazioni. Ma poi ci appare la freccia, un po’ scolorita, dipinta sulla parete. E lo spioncino disposto a lato. Saverio avvicina il viso per primo mentre io attendo il mio turno. E mi appoggio,  stanco, alla parete, le braccia conserte, le punte delle scarpe unite e le spalle al futuro.



CALIFORNIA

Un giorno ci arrivero’, ne sono certo. Attendero’ paziente e compito l’annuncio del mio volo all’aeroporto di Phoenix con una rivista di musica in mano. Mi portero’ dietro il mio zaino e la mia abbronzatura western. Mettero’ la cintura con la fibbia da camionista, mi ficchero’ nelle orecchie la musica dei Prairie League. Sorvolero’ l’Arizona ed il Nuovo Messico fino a vedere li’ sotto i campi coltivati a vite ed arance. Tirero’ il respiro piu’ lungo della mia vita avviandomi giu’ per la discesa fino al Golden Gate. Osservero’ compiaciuto il tranquillo procedere dei tram, le case in legno, i quartieri hippy, le vestigia di un passato ancora recente. E camminero’ nell’aria ventosa, i pensieri in subbuglio e gli occhi pieni. Occhi bambini, che staranno gia’ correndo innanzi, verso la spiaggia che ancora sembra lontana. E si volteranno solo un istante prima di tuffarsi in mare lasciandomi indietro. Lasciandomi solo ad aspettarli.


IMBUCATO

Imbucato dici ? Beh, che c’e’ di male?. Ho perso un braccio a Waterloo, lasciato una gamba a  Gettysburg e un piede in Russia. Sono arso vivo a Magdeburgo, collassato a Dunquerque. Ovvio che tuteli quel poco rimasto. Ora dalla trincea lascio uscire per primi gli altri, anzi a volte neppure mi affaccio dopo averli sentiti gridare, prima per farsi forza e poi per accompagnare la propria agonia. Vigliacco, dici? Di’ pure traditore. Pero’ quando la tromba suona la ritirata mi guardano con invidia sedermi sulla sdraio a contemplare il tramonto. E mentre le nuvole si diradano e l’orizzonte si fa rosso rosso i loro sguardi, ne sono certo,  contemplano con invidia la mia oasi, accarezzano la sabbia e si posano sul mio corpo, o quel che ne resta.

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